Il ruolo dei progettisti nell’immaginare delle aree pubbliche in cui fare esperienza di integrazione
Un solo viaggio raccontato in tre articoli che pubblicheremo giornalmente. Un focus sull’Iran che ha ospitato i designers partecipanti alla Conferenza internazionale sullo spazio pubblico.
Quest’estate sono stata invitata a partecipare alla prima Conferenza internazionale Spazio pubblico: imparare dal passato e dal presente per il futuro (FUPS2018) a Teheran, in Iran. L’obiettivo del meeting presso la Tarbiat Modares University era quello di rivisitare il concetto e le esperienze legate ai luoghi pubblici, come continuazione dell’identità storica delle città e come mezzo per migliorare la qualità di vita di ciascun cittadino.
Ho portato la mia ricerca sugli spazi urbani e su come i designers dovrebbero accendere un faro sui grandi fenomeni globali dell’immigrazione. Il mio articolo “The Spatial Impact of Immigration”, suggerisce due elementi: da un lato che il multiculturalismo è un dato di fatto, dall’altro che noi progettisti siamo responsabili della pianificazione di città sostenibili che siano aperte e accessibili a tutti. Due elementi in linea con l’affermazione del sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel: “lo straniero non sarà quindi considerato, qui, come un viandante che viene oggi e va domani, ma piuttosto come l’uomo che viene oggi e rimane domani”.
L’immigrazione è un fenomeno che non può essere fermato, perché i motivi che portano le persone a cercare un luogo migliore dove vivere sono forti e molto profondi. Insieme l’Occidente, a causa di complesse dinamiche sociali e culturali, necessita dell’apporto degli immigrati. Per questo motivo è indispensabile elaborare una strategia in grado di dar vita ad un processo virtuoso di accoglienza.
Per i progettisti urbani, la questione chiave è una: come riconoscere, rispettare e accogliere la diversità attraverso l’ambiente costruito?
Come architetti, la nostra responsabilità è quella di fornire ai cittadini l’opportunità di incontri positivi, negli spazi pubblici, tra gruppi diversi, l’accesso paritario ai servizi e l’implementazione di nuove tipologie di progettazione partecipativa. Per raggiungere questo obiettivo c’è un solo modo: il coinvolgimento di tutte le parti interessate, impostato sul confronto di esperienze, conoscenze e finanziamenti.
Durante la mia ricerca, ho identificato uno spazio “intermedio” che fornisce il primo porto di arrivo per il Global Citizen. Si tratta di siti ambivalenti, posizionati tra il Paese di origine e quello ospitante. Sebbene quasi sempre pericolosi, indesiderabili e situati in posizioni disagevoli, questi luoghi rimangono l’unica interfaccia tra i due mondi. Qui le persone iniziano a progettare il proprio futuro come individui, famiglie e intere comunità urbane.
È in queste aree che le idee globali e locali contribuiscono a un processo di apprendimento basato sull’accettazione, il rispetto e l’integrazione. Questo luogo intermedio è da identificare con uno spazio pubblico, piuttosto che con un rione interno ad un quartiere. In altre parole, un ambiente open-source in cui le persone si incontrano, interagiscono e si scambiano idee.
Come messo in luce da progetti come BIG Superkilen a Copenaghen, lo spazio pubblico è vissuto dai diversi elementi che compongono la società. Aree di grande importanza per la popolazione immigrata in quanto capace di celebrare la diversità e ispirare, al tempo stesso, altre città. È fondamentale, per i nuovi arrivati, essere coinvolti nella progettazione degli spazi che abiteranno. L’obiettivo, infatti, è quello di dar vita ad una comunità che utilizzi collettivamente ed efficientemente le proprie risorse, facilitando crescita e inclusione. Delle vere e proprie “comunità sane e ad alte prestazioni, frutto di un’approfondita analisi del modo in cui le persone vivono e lavorano”, per citare Alexis Zanghi e il suo libro “The importance of Arrival Cities” (l’importanza delle città di arrivo).
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