Al Maxxi di Roma mostra e un ciclo di eventi “Lo spazio di un continente”
“Credo che l’architettura non produca soltanto forme, ma sia uno strumento per dare senso agli spazi. Non si tratta solo di una materia dove applicare principi di estetica e ingegneria, ma è un ambito d’azione dove è necessario costruire prima di tutto una relazione emotiva con i luoghi”. David Adjaye, architetto ghanese naturalizzato britannico fondatore dello studio Adjaye Associates, è intervenuto il 4 luglio al Museo Maxxi Arte di Roma, in occasione del primo dei tre eventi del ciclo “Lo spazio di un continente”.
Adjaye, insieme a Mokena Makeka (che interverrà il 12 luglio) e Jo Noero (19 luglio) è stato chiamato dal museo romano per dialogare sul ruolo dell’architettura in un continente come l’Africa, dove è chiave per trasformazioni non solo materiali, ma anche concettuali e sociologiche. Un’iniziativa che si inserisce all’interno della programmazione estiva del Maxxi dedicata all’Africa, a partire dalla mostra “African Metropolis. Una città immaginaria” inaugurata il 22 giugno e visitabile fino al 4 novembre. L’esposizione, realizzata in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale presenta i lavori di 34 artisti che riflettono sulle grandi trasformazioni sociali e culturali in atto.
Ma qual è la sfida che deve affrontare l’architettura del continente? Si può parlare di uno stile africano moderno? “Si parla spesso di Africa oggi, per diversi motivi, dalle crisi economiche e sociali alle problematiche ambientali – ha spiegato Adjaye – ma non si discute mai di una cultura architettonica africana e questa assenza di dibattito fa si che non ci sia da parte dei professionisti una consapevolezza della loro identità. Infatti non esiste oggi un vero e proprio stile africano. I progetti che vengono sviluppati si ispirano ancora all’idea di modernità post coloniale e mentre si aspetta che arrivino le risorse per realizzarli dalle amministrazioni locali o da organizzazioni internazionali, le città del resto del mondo continuano a crescere, lasciando indietro l’Africa”.
Una mancanza di consapevolezza da parte dei professionisti, ma anche delle amministrazioni, che non investono nella conservazione e valorizzazione delle strutture storiche già presenti sul territorio, ma le demoliscono in nome di un modello occidentale di modernità “fatto di edifici illuminati e rigorosamente di vetro”.
Il futuro dipenderà molto dai singoli governi, in Ghana per esempio si è scelto di investire sui giovani architetti, evitando che fuggano all’estero. Far rimanere i talenti è uno dei fattori che determinerà o meno la rinascita dell’architettura africana.
David Adjaye
Oltre al primo ufficio a Londra aperto nel 2000, lo studio Adjaye Associates conta oggi sedi negli Stati Uniti, in Europa, in Medio Oriente, in Asia e, naturalmente, in Africa. Tra le sue opere più note? Il Museo nazionale di storia e cultura afroamericana del Smithsonian Institution di Washington D.C (NMAAHC), che si sviluppa su un’area di 420mila mq, ed è articolato su 9 livelli. Inaugurato nel settembre 2016 dall’ex presidente Barack Obama, “l’edificio si ispira al periodo storico – come ha spiegato lo stesso architetto – in cui gli schiavi afroamericani liberati dalla vita contadina al commercio, e simboleggia metaforicamente una sorta di risarcimento alla comunità afroamericana, vittima ancora oggi di discriminazioni”.
È un’architettura prima di tutto “umana” quella che persegue Adjaye, che nasce grazie a un’attenta analisi dei luoghi in cui si deve costruire, e da uno studio preliminare approfondito. “Osservo moltissimo prima di realizzare uno schizzo – ha spiegato l’architetto –, ho un’idea romantica della nascita di un progetto. Penso infatti che l’architettura esista già prima di concepirla, la sfida sta nell’essere in grado di visualizzarla correttamente. Per questo – ha dichiarato – ritengo sia fondamentale conoscere prima il contesto per poi far emergere spontaneamente il progetto sulla carta”.
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