Al lavoro nella fase di preparazione del film, il (o la) caporeparto deve essere capace di unire creatività e managerialità
Artigianalità condita di capacità manageriali e tanta creatività, anche per reinventarsi. «Il cinema è un lavoro in cui tanti tasselli vanno messi insieme per la creazione di un solo prodotto finale. C’è la volontà del regista che ha in mente un personaggio e una sceneggiatura che influenza la mia visione dei costumi da usare rispetto alla storia immaginata; può esserci un discorso con il direttore della fotografia, con cui scegliere una palette di colori che magari si modifica al cambiare della narrazione… I reparti slegati non creano un buon film».
Nel cinema ci si viene incontro in un dialogo fatto di immagini
Francesca Di Giuliano, professione costumista, parla di sé dicendo che le piace stare nei posti «poetici». E inventare, scoprire la psicologia del personaggio, mettere in scena il proprio immaginario e a fattor comune le immagini che considera di riferimento immagazzinate durante la formazione e, più in generale, nel quotidiano: «La verità è che porti tanto di te quando proponi le tue idee sui costumi di un film».
«Oggi mi permetto il lusso di definirmi costumista – spiega – anche se in passato sono stata assistente al set. Tanta gavetta e tanta voglia di creatività dietro a questo mio mestiere» che collabora alla definizione dell’immagine complessiva del film.
Suo il ruolo di caporeparto in “Cloro” di Lamberto Sanfelice (selezionato al Sundance Film Festival e alla Berlinale) e in “Il contagio” di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini (selezionato per il Festival di Venezia 2017 nelle Giornate degli Autori). Tra le ultime collaborazioni, quella che ha definito «una piccola perla», il cortometraggio “Brodo di carne”, che ha vinto nella sezione “corti” di Alice nella città, al Festival di Roma 2018 (leggi l’articolo dedicato di Pantografo Magazine).
«Lavoro nella fase di preparazione del film che mi piace di più perché è di ricerca (di materiali, costumi, iconografica) per proporre al regista delle immagini anche sul mood del personaggio con rimandi all’arte o in altri film – racconta Francesca – Per questo mi aiuta molto la mia formazione universitaria (cinema e storia dell’arte) che mi permette rimandi a 360 gradi, intellegibili universalmente».Un ruolo, quello da costumista, che raggruppa conoscenza, competenza pratica, capacità manageriali e di leadership. «Ci si prende responsabilità per tutto il reparto di cui sei a capo e lo difendi, anche perché spesso ti sei scelto i collaboratori. Quindi si gestiscono persone, budget e competenze degli altri; tra le mani hai scontrini, fatture e a volte anche le paghe dei dipendenti per cui ti trovi a negoziare e a mediare sugli importi»
Da grandi incarichi derivano anche grandi responsabilità. Che Francesca ha trasportato anche fuori dal set, in quello che chiama laboratorio per sottolineare l’accezione artigianale del suo lavoro.
Nobodykillsunicorn è anche spazio espositivo, recupero del granaio parte di un ex mulino, condivisione degli spazi con uno studio di grafica e fotografia (3industries) e uno di architettura (a3e)
Si trova nel quadrante est di Roma, in via del Mandrione, non lontano dal Mulino Marrana, oggi dismesso ma ancora capace di raccontare attraverso l’impianto strutturale la storia dell’attività per cui fu costruito. E così anche dentro a Nobodykillsunicorn, che al primo piano conserva ancora le assi di legno della vecchia struttura.
Nato per rispondere a un’esigenza pratica – quella di archiviare i costumi in un magazzino in cui fossero facilmente accessibili – il laboratorio di Francesca Di Giuliano è diventato un posto di ricerca, di proposta all’esterno di attività e approfondimenti relativamente ai costumi e ai vestiti. Per esempio, attraverso il recupero delle tecniche antiche e dismesse – che ora vivono una nuova primavera – come il ricamo e il macramè.
«Sono parte della nostra cultura», sottolinea Francesca prima di addentrarsi in una riflessione profonda, slegata ma non troppo alla difficoltà di far quadrare i conti in un sistema fiscale che fatica ad adeguare alle caratteristiche delle sue molte attività: «In Italia abbiamo un gran patrimonio umano e culturale; nelle piccole realtà locali, nel cinema indipendente, per esempio. Ma non è pensabile che qualsiasi attività debba essere spettacolarizzata per avere qualche possibilità arrivare sul mercato: le persone possono accrescere nel tempo la propria capacità di accogliere proposte diverse, anche in materia culturale, se l’attenzione non è alla vendita del prodotto ma all’ampiezza della proposta e alla tutela dell’eterogeneità. Scontiamo invece un’idea di accessibilità che sfocia spesso nel tutto “gratuito” e dimentica che la cultura non può essere imposta ma andrebbe subordinata a una richiesta da parte del potenziale fruitore. Senza una domanda, che è espressione del desiderio di conoscere, di quanto è stato offerto non rimane nulla».
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