Urban Food: Laurenzi, Cingolani e Torri si confrontano su iniziative pubbliche o private
Che il cibo crei socialità è risaputo. Ma socialità implica comunità e la comunità vive per definizione uno spazio. “Sempre più si riflette su come food non significhi solo mangiare, ma sia una vera esperienza, in buona parte spaziale”. Così dice anche Dario Laurenzi, fondatore di Laurenzi Consulting, promotore di diverse iniziative nel campo del food and beverage, coniugando interior design e qualità del cibo. Contenuto, il food, e contenitore, l’architettura, devono crescere insieme. Facile capire che gli interni sappiano influenzare direttamente la food experience, ma è l’innegabile rapporto interno-esterno a non essere scontato.
E con food non si indica solo un piatto, ma un intero processo, dalla produzione allo scarto
Dario Laurenzi
Proprio quest’ultimo si integra con l’esterno, addirittura con l’urbanistica per arrivare all’agricoltura quando ci si trova in aree non centrali.
Ne è esempio OpenArgi: New Skills for new Jobs in Periurban Agriculture Il progetto è promosso dal Comune di Milano, che da Expo2015 sente proprio il binomio architettura e food, e ha l’obiettivo di riqualificare e integrare città e campagna, coniugando innovazione e valorizzazione del territorio. L’area interessata dal bando europeo si situa nella frangia tra il tessuto denso di Corvetto e Porto di Mare e quello agricolo del Parco Sud, rientrando nell’ambito del Piano Periferie: 30 gli ettari a disposizione di imprenditori e startup con idee innovative per l’agrifood. Il centro direzionale dell’iniziativa sarà Open Innovation Hub (insediato nella Cascina Nosedo), con spazi per il coworking ed altri attenti all’inclusione sociale. Sono 16 i partner con professionalità diversificate impegnati per questa sfida raccontata da Rossana Torri, project manager per conto del Comune, che ambisce a ridisegnare il territorio a partire dalla periferia, offrendo un contributo per la riqualificazione urbana puntando sulla sperimentazione e creando nuovi posti di lavoro.
Ma il tema del cibo non rigenera solo i boundaries Si pensi a Roma al Nuovo Mercato Centrale di Termini o alla riqualificazione dell’Air Terminal Ostiense grazie a Eataly o al vicino Porto Fluviale. Quest’ultimo è un ex capannone industriale di 900 mq, rigenerato grazie al lavoro della stessa Laurenzi Consulting con l’architetto Roberto Liorni. In pochi anni il Porto Fluviale è diventato un hub frequentato da diverse generazioni per il pranzo, l’aperitivo o la cena. Un salotto culinario che, secondo i fautori del progetto, funziona proprio perché ben relazionato con il contesto: i 60 metri di facciata permettono un continuo scambio tra dentro e fuori e gli interni dimostrano il ruolo centrale del progetto per migliorare la food experience. Per una rigenerazione urbana capillare, banditi spazi asettici a favore di spazi parlanti, legati al territorio. E Porto Fluviale è stato sicuramente in grado di rigenerare un’area che aspettava un’iniezione di vitalità e creatività.
Le architetture contaminate I luoghi del cibo non sono più chiusi in se stessi, ma sono contaminati e sempre più polifunzionali. Come non parlare, allora, degli hotel. In Italia ci sono ancora rari casi di alberghi che attraggono cittadini e turisti per una cena nel proprio ristorante: forse Milano è la sola ad avvicinarsi a questo trend (si pensi al Principe di Savoia o al Bulgari, o ancora al Four Seasons). L’esperienza di Aldo Cingolani, ceo di Bertone Design, coinvolto nell’iniziativa “Urban Food” promossa da Laurenzi Consulting e PPAN, aspettando la terza edizione del Mapic Food & Beverage di Milano, dimostra che nel nostro Paese mancano ancora progetti integrati per il food che dal concept tengano in considerazione il rapporto con l’intorno e investano sul design come valore aggiunto. L’invito del mondo dell’architettura che si confronta con questo tema è quello di andare oltre le “Ikea reality” di spazi copia e incolla. “Servono architetture smart e attrattive” dice Cingolani, che creino intorno al food un vero sistema dell’abitare. Come in cucina, in architettura non esiste una sola ricetta, ma essa varia a seconda dei vincoli e delle condizioni. È proprio il caso di dire, dal cucchiaio alla città.
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