Coltivazione in ambienti chiusi e controllati, business in crescita: bilancio positivo sul consumo d’acqua, ma pratica energivora
La startup statunitense Plenty, attiva nel settore dell’agricoltura verticale, formerà una joint venture con Mawarid, una filiale dell’emiratina Alpha Dhabi Holding. Un accordo da 680 milioni di dollari grazie al quale sarà sviluppata una rete di cinque fattorie indoor in Medio Oriente nei prossimi anni, secondo quanto le due società hanno dichiarato alla Reuters. Un primo investimento congiunto da circa 130 milioni di dollari finanzierà la realizzazione di una fattoria al coperto ad Abu Dhabi, che dovrebbe essere inaugurata all’inizio del 2025 per poi entrare in servizio l’anno successivo. Questa joint-venture punta a produrre oltre 4,5 milioni di chili di fragole di prima qualità l’anno per il consumo locale e l’esportazione nei paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo. Ovvero insieme agli Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Bahrein, Qatar, Kuwait, Oman. Ed è interessante che parte del finanziamento provenga da un prestito di una banca emiratina: una fonte di capitale inusuale per l’industria dell’agricoltura indoor ad alta intensità di capitale, che ha raccolto miliardi dagli investitori di venture capital. Quanto sta accadendo ad Abu Dhabi non è un fatto isolato, ma segnala un fenomeno in crescita ovunque.
Le vertical farm in ambienti interni controllati sono viste come un modo sostenibile per coltivare frutta e verdura più vicino al punto di consumo, si direbbe oggi a chilometro zero, utilizzando per di più meno acqua.
Il che, come si potrà immaginare, è particolarmente allettante nella Penisola arabica visto il clima della regione. Ma c’è chi pensa che possa diventarlo per molti più paesi, alla luce della crescita della popolazione mondiale. Ma come ogni cambiamento sostenibile, anche questo è vittima di un trade off. Se il bilancio è positivo in termini di carburante per il trasporto, acqua per la coltivazione e terreno risparmiati, non lo è per l’energia elettrica. Una vertical farm è infatti un ambiente chiuso e controllato, isolato da quello esterno riguardo a tutti i parametri ambientali (luce, umidità, temperatura e ossigenazione), che deve essere abbastanza grande da contenere una produzione su larga scala. Le tecniche più impiegate sono idroponica e aeroponica, che garantiscono un uso e una distribuzione efficienti delle sostanze nutritive destinate alle piante. Con la prima metodologia le piante affondano le radici in acqua, ed è quella che da tempo è usata nei Paesi Bassi per coltivare (ed esportare) soprattutto pomodori. Con la seconda sono sospese a contatto con l’aria, e spruzzate regolarmente con una soluzione di acqua e nutrienti. Il consumo energetico dipende in primo luogo dal fatto di dover sostituire la luce solare con quella artificiale, e dalla necessità di automatizzare molti processi, mantenendo costanti in modo artificiale i parametri vitali delle piante. E il bisogno di utilizzare l’elettricità impatta sul prezzo dei prodotti che nascono in questo modo. Per cui questo tipo di produzione può funzionare per una varietà limitata di specie vegetali, come piccoli ortaggi a foglia verde, erbe aromatiche e appunto bacche da frutto. Che non sono tra i cibi più nutrienti. Insomma il business c’è, per un certo tipo di prodotti e per una certa clientela. Sul cambio di paradigma per l’agricoltura si dovrà ancora valutare.
In copertina: Agricoltura verticale a Singapore ©Lianoland Wimons, wikimedia commons
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