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Una guida per capire il rovescio della medaglia della ‘Gentrification’

Il libro di Irene Ranaldi spiega cosa la ‘borghesizzazione’ dei quartieri significhi per i residenti


Le parole inglesi sono spesso inflazionate. E a volte finiscono anche (con dolo o no) per avere la funzione del latinorum di don Abbondio: quella di non far capire di che si parla. Gentrification, molto usata negli ultimi anni, è una di queste. Nell’accezione comune è intesa come il fenomeno per il quale un quartiere popolare, talvolta degradato, rinasce con l’arrivo di abitanti da fuori, la partenza di nuovi locali eccetera. Ma la realtà è più complessa, e soprattutto può essere vista da dentro oltre che da fuori. Di questo parla la sociologa Irene Ranaldi nel libro ‘Gentrification. Guida semiseria a un fenomeno urbano’. Ranaldi è dottore di ricerca in teoria e analisi qualitativa nella Facoltà di Sociologia de La Sapienza a Roma, nonché presidente dell’associazione di promozione sociale ‘Ottavo Colle’.

Sulla base di un’analisi antropologica e sociologica, ma anche di un registro ironico, l’autrice ci mostrerà l’altra faccia della gentrification, sempre più comune nei quartieri delle grandi città. Spesso il termine è usato come sinonimo di riqualificazione. Ma sinonimi non sono. La riqualificazione dovrebbe coinvolgere chi nel quartiere già abita, ci fa capire Ranaldi.


Al contrario la gentrificazione nasce da uno sviluppo “commerciale”, a causa del quale la zona alla fine del processo non è più abbordabile per coloro che ci vivono, che saranno via via sostituiti da nuovi abitanti più abbienti.


A farne le spese sono le attività tradizionali e i negozi familiari, mentre spuntano come funghi servizi su misura dei nuovi arrivati.

A Roma, città in cui vive Ranaldi, qualcosa di simile si è visto diverse volte. Per esempio, a San Lorenzo, un tempo dimora di operai, poi diventato simbolo degli universitari. Oppure a Testaccio e Ostiense, zone limitrofe l’una all’altra, un tempo veraci, nel caso di Testaccio una specie di periferia del centro all’interno delle mura Aureliane. Finché entrambi hanno visto sorgere locali, teatri, discoteche, ristoranti e sushi bar, diventando punti caldi della movida romana. Ma anche Trastevere a ben guardare è stato un caso di gentrification, poco citato forse perché si tratta ormai di vicende che vanno parecchio indietro nel tempo. Da decenni meta obbligatoria per turisti e pub crawl, questa porzione di centro storico sulla riva destra del Tevere fino agli anni ‘80 era ben altro: beninteso, non tutto rose e fiori.

Fu a Trastevere, in piazza San Cosimato, che nel 1980 venne ucciso il primo boss della Banda della Magliana, Franco Er Fornaretto Giuseppucci, per dare un’idea di cosa stiamo parlando. Ma Trastevere era anche il cuore popolare della vecchia Roma, quella cantata da Claudio Villa che lì era nato (oltre che dalla testaccina Gabriella Ferri). E non a caso un verso del brano diceva: “Il progresso t’ha fatto grande, ma questa città non è quella in cui si viveva tanti anni fa”. Nella Trastevere d’antan c’erano le trattorie che servivano le specialità romane, quelle vere, che in alcuni casi (si pensi al cervelletto fritto) oggi non sarebbero forse troppo invitanti e che infatti è ormai difficile trovare. E non le tante tourist trap in cui ci si imbatte ora, che fanno fare affari d’oro come i diversi b&b. E c’era anche l’atmosfera vernacolare, con poco o punto inglese, che Carlo Verdone immortalò in Un sacco bello, nell’episodio del goffo Leo che incontra la spagnola Marisol a porta Settimiana. Ma come spesso accade a seguito della gentrificazione, la tradizione genuina di Trastevere, ormai svanita, viene tuttora utilizzata come narrazione del quartiere a fini commerciali. Meglio? Peggio? Il bilancio non si può ottenere così, su due piedi. Ma eccoci al punto: la gentrificazione non fa rinascere un’area, la cambia. Cancellandone l’anima popolare e popolana, risolvendo alcuni problemi e creandone altri.

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